Con il termine scrittura non intendo certo la rappresentazione visiva dell’espressione linguistica né l’insieme dei segni che a tale scopo è utilizzato. In questo luogo mentale parlerò della scrittura come pratica letteraria e ne indagherò i moventi, anche se scrivere non è ancora un crimine. Si tratta di semplici resoconti di esperienze e di riflessioni (più i primi che le seconde), e non un tentativo di organizzare sistematicamente la materia né un’agile compilazione di regole in vista di un manuale creativo: quello che segue è solo un inutile esercizio di metaletteratura.
Come dichiaro apertamente nell’home page, sono uno che scrive con intenti artistici e quindi mi ritrovo spesso, quando evidentemente non ho niente da scrivere, ad interrogarmi sul perchè lo faccio (scrivere, intendo). Premetto che non sono uno scrittore, non ne ho lo status sociale e non posso appoggiare la mia autostima su supporti cartacei disponibili sul mercato tramite una capillare distribuzione territoriale. Quindi per il mio lavoro non sono pagato, non ho ricevuto attestazioni pubbliche né vantaggi materiali di alcun tipo e, aggiungo a scanso di equivoci, non uso la scrittura come terapia. Eppure continuo a dedicare tempo ed energia a questa pratica solitaria e narcisistica. Evidentemente ne traggo piacere, e a questo punto l’eventuale domanda cambia e riguarda quali desideri fisici e/o spirituali la scrittura è in grado di appagare. Sicuramente il mio innato narcisismo (sempre in lotta con la mia acquisita discrezione) e il bisogno del tutto umano di riconoscimento e visibilità, ma non solo questi. Anzi penso che quanto appena elencato non rappresenti che una componente marginale, fatalmente legata alle dinamiche sociali, della mia pulsione a digitare sulla tastiera. Il motivo vero è forse più banale, meno attuale, e squisitamente metodologico: scrivo per dare aspetto e consistenza, forma e materia a ciò che avviene nell’officina della mente. L’imperativo è registrare quindi rendere oggettivo, ufficiale, e con un grado maggiore di realtà, ciò che altrimenti rimarrebbe aleatorio e immateriale. Ho scoperto, e non sono solo, che nel trasporre su carta (o su bit) l’incessante lavorio celebrale, il pensiero diventa più nitido, complesso, esaustivo e definito, in una parola più potente di quanto la sua piccola luce negli anfratti mentali mi avrebbe lasciato immaginare. L’atto dello scrivere, da semplice operazione di trascrizione, diventa procedimento ideativo, strumento conoscitivo e creativo, un metodo di indagine sulla realtà. Riassumendo, scrivo perchè spesso (sempre di più) la mia coscienza intercetta (percepisce) la presenza (esistenza) di universi. Confinati nella mente, quei cosmi rimarrebbero solo intuizioni senza materia, posti oscuri e puntiformi, inaccessibili ed inospitali, avvolti nelle nebulose della vaghezza, ma nel testo posso penetrarli ed illuminarli col potente fascio di luce conoscitiva del linguaggio scritto. La scrittura mi consente di rischiarare il cammino e di scoprire una serie di posti interessanti: non crea situazioni, luoghi, personaggi, ma semplicemente li rende visibili. Il romanzo quindi non è che la capacità di seguire un percorso fino alla fine (che poi è la prossima partenza), mantenendo agile il passo e l’occhio vigile, tenendo conto che ogni nuovo luogo è un possibile punto di contatto con un altro universo, e così all’infinito, finché si ha la forza di esplorare.
Una volta resi visibili, gli universi diventano abitabili e io mi ci trasferisco in pianta stabile, prima durante e dopo le fasi di scrittura. Non dovendo rispondere delle strade che seguo, non avendo direzioni obbligate, punti di riferimento né mete da raggiungere, mi faccio guidare solo dalla scoperta e dal piacere che mi procura. Ad ogni passo nuovi spazi si aggiungono ai miei territori della realtà e io ci vivo dentro, moltiplicando le possibilità di esistenza meglio di quanto le religioni più fantasiose possono promettere. La scrittura è ubiquità, ed essendo lo spazio sempre legato al tempo, l’ubiquità moltiplica la durata della mia vita di un fattore che spetta a me scegliere, e che di solito dipende dal numero di romanzi e racconti che penso di esplorare. L’importante non è per me appartenere al mondo della cultura, ma creare mondi nuovi. E quelli che creo sono reali perchè, al pari di un temporale o di un paesaggio, interagiscono con me e con il lettore e ci modificano (oltre ad essere modificati essi stessi, passando da semplici supporti inchiostrati, o pixel anneriti, in enti capaci di influenzare esseri intelligenti). Questo fa di me, se non uno scrittore, almeno un demiurgo. E ciò mi basta.
Dunque io (pronome personale di autocompiacimento) scrivo. Ma non storie. Chi scrive storie racconta. Io (estensione narcisistica di personalità) non tesso trame ed orditi, almeno non solo quello: io mi occupo anche del telaio, dell’officina tessile, del terreno su cui insiste il capannone, del territorio cui appartiene, della regione che tutt’intorno si stende, dell’universo (ne abbiamo già parlato) che tutto contiene. E nell’occuparmene prediligo la complessità. Della semplicità diffido. E non mi riferisco al suono della parola, che è sibilante e disteso, né tanto meno alle immagini che evoca, luminose ed agresti, ma all’uso eccessivo, scorretto ed in palese contraddizione con il significato, che se ne fa ogni giorno. In questo mondo, a tutt’oggi, poche cose sono realmente semplici, irriducibili, indivisibili. Che io sappia, bisogna rivolgersi alla fisica fondamentale che elenca soltanto sei tipi di leptoni (elettrone, neutrino dell’elettrone, muone, neutrino del muone, tauone e neutrino del tauone), sei tipi di quark (up, down, charm, strange, top e bottom) e per ognuno di questi bisogna considerare le relative antiparticelle. Finito qui. E stiamo parlando di oggetti che non s’incontrano facilmente per strada e di cui si interessano solo i fisici delle alte energie e qualche filosofo illuminato (e qualche scrittore razionalista). Il resto è interazione ed emersione di proprietà nuove e spesso imprevedibili, dinamiche non-lineari, caos e indeterminazione strutturale, per non parlare della vita e della società, tutte cose che fanno dell’universo un posto molto complicato. E vuoi che un romanzo non lo sia, che non contenga al suo interno il riflesso dell’inestricabile rete della complessità globale?
Come dichiaro apertamente nell’home page, sono uno che scrive con intenti artistici e quindi mi ritrovo spesso, quando evidentemente non ho niente da scrivere, ad interrogarmi sul perchè lo faccio (scrivere, intendo). Premetto che non sono uno scrittore, non ne ho lo status sociale e non posso appoggiare la mia autostima su supporti cartacei disponibili sul mercato tramite una capillare distribuzione territoriale. Quindi per il mio lavoro non sono pagato, non ho ricevuto attestazioni pubbliche né vantaggi materiali di alcun tipo e, aggiungo a scanso di equivoci, non uso la scrittura come terapia. Eppure continuo a dedicare tempo ed energia a questa pratica solitaria e narcisistica. Evidentemente ne traggo piacere, e a questo punto l’eventuale domanda cambia e riguarda quali desideri fisici e/o spirituali la scrittura è in grado di appagare. Sicuramente il mio innato narcisismo (sempre in lotta con la mia acquisita discrezione) e il bisogno del tutto umano di riconoscimento e visibilità, ma non solo questi. Anzi penso che quanto appena elencato non rappresenti che una componente marginale, fatalmente legata alle dinamiche sociali, della mia pulsione a digitare sulla tastiera. Il motivo vero è forse più banale, meno attuale, e squisitamente metodologico: scrivo per dare aspetto e consistenza, forma e materia a ciò che avviene nell’officina della mente. L’imperativo è registrare quindi rendere oggettivo, ufficiale, e con un grado maggiore di realtà, ciò che altrimenti rimarrebbe aleatorio e immateriale. Ho scoperto, e non sono solo, che nel trasporre su carta (o su bit) l’incessante lavorio celebrale, il pensiero diventa più nitido, complesso, esaustivo e definito, in una parola più potente di quanto la sua piccola luce negli anfratti mentali mi avrebbe lasciato immaginare. L’atto dello scrivere, da semplice operazione di trascrizione, diventa procedimento ideativo, strumento conoscitivo e creativo, un metodo di indagine sulla realtà. Riassumendo, scrivo perchè spesso (sempre di più) la mia coscienza intercetta (percepisce) la presenza (esistenza) di universi. Confinati nella mente, quei cosmi rimarrebbero solo intuizioni senza materia, posti oscuri e puntiformi, inaccessibili ed inospitali, avvolti nelle nebulose della vaghezza, ma nel testo posso penetrarli ed illuminarli col potente fascio di luce conoscitiva del linguaggio scritto. La scrittura mi consente di rischiarare il cammino e di scoprire una serie di posti interessanti: non crea situazioni, luoghi, personaggi, ma semplicemente li rende visibili. Il romanzo quindi non è che la capacità di seguire un percorso fino alla fine (che poi è la prossima partenza), mantenendo agile il passo e l’occhio vigile, tenendo conto che ogni nuovo luogo è un possibile punto di contatto con un altro universo, e così all’infinito, finché si ha la forza di esplorare.
Una volta resi visibili, gli universi diventano abitabili e io mi ci trasferisco in pianta stabile, prima durante e dopo le fasi di scrittura. Non dovendo rispondere delle strade che seguo, non avendo direzioni obbligate, punti di riferimento né mete da raggiungere, mi faccio guidare solo dalla scoperta e dal piacere che mi procura. Ad ogni passo nuovi spazi si aggiungono ai miei territori della realtà e io ci vivo dentro, moltiplicando le possibilità di esistenza meglio di quanto le religioni più fantasiose possono promettere. La scrittura è ubiquità, ed essendo lo spazio sempre legato al tempo, l’ubiquità moltiplica la durata della mia vita di un fattore che spetta a me scegliere, e che di solito dipende dal numero di romanzi e racconti che penso di esplorare. L’importante non è per me appartenere al mondo della cultura, ma creare mondi nuovi. E quelli che creo sono reali perchè, al pari di un temporale o di un paesaggio, interagiscono con me e con il lettore e ci modificano (oltre ad essere modificati essi stessi, passando da semplici supporti inchiostrati, o pixel anneriti, in enti capaci di influenzare esseri intelligenti). Questo fa di me, se non uno scrittore, almeno un demiurgo. E ciò mi basta.
Dunque io (pronome personale di autocompiacimento) scrivo. Ma non storie. Chi scrive storie racconta. Io (estensione narcisistica di personalità) non tesso trame ed orditi, almeno non solo quello: io mi occupo anche del telaio, dell’officina tessile, del terreno su cui insiste il capannone, del territorio cui appartiene, della regione che tutt’intorno si stende, dell’universo (ne abbiamo già parlato) che tutto contiene. E nell’occuparmene prediligo la complessità. Della semplicità diffido. E non mi riferisco al suono della parola, che è sibilante e disteso, né tanto meno alle immagini che evoca, luminose ed agresti, ma all’uso eccessivo, scorretto ed in palese contraddizione con il significato, che se ne fa ogni giorno. In questo mondo, a tutt’oggi, poche cose sono realmente semplici, irriducibili, indivisibili. Che io sappia, bisogna rivolgersi alla fisica fondamentale che elenca soltanto sei tipi di leptoni (elettrone, neutrino dell’elettrone, muone, neutrino del muone, tauone e neutrino del tauone), sei tipi di quark (up, down, charm, strange, top e bottom) e per ognuno di questi bisogna considerare le relative antiparticelle. Finito qui. E stiamo parlando di oggetti che non s’incontrano facilmente per strada e di cui si interessano solo i fisici delle alte energie e qualche filosofo illuminato (e qualche scrittore razionalista). Il resto è interazione ed emersione di proprietà nuove e spesso imprevedibili, dinamiche non-lineari, caos e indeterminazione strutturale, per non parlare della vita e della società, tutte cose che fanno dell’universo un posto molto complicato. E vuoi che un romanzo non lo sia, che non contenga al suo interno il riflesso dell’inestricabile rete della complessità globale?